Il Ridotto Veneziano

I Veneziani di un tempo furono grandi estimatori del gioco d'azzardo: proprio in questo periodo dell'anno, e cioè durante il Carnevale, donne e uomini di qualsiasi ceto sociale e di qualsiasi professione si scatenavano senza alcuna remora, scommettendo i propri averi nei salotti più o meno "in" della città. Si trattò di una vera e propria piaga, a cui le autorità cercarono di porre un freno più e più volte nel corso della storia (senza, ahimè, grossi risultati!).

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Sappiate che il gioco d'azzardo a Venezia cominciò a diffondersi e a svilupparsi nel XVI secolo, anche se risale al 1539 una legge che proibì le carte e i dadi, pena l'esclusione dai pubblici uffici per chi tenesse in casa un banco di gioco. Successivamente, tuttavia, le autorità - non riuscendo ad arginare la questione - ammisero i banchi nei cosiddetti "casini", ovvero in quelle stanze o piccoli appartamenti che i nobili veneziani affittavano nei pressi di San Marco.

Casino Venier, Venezia

Col passare del tempo, questi "casini" divennero dei veri e propri luoghi di piacere e di vizio: qui, tra banchetti, festini, danze e musiche, i nobili di Venezia evadevano dalla loro noiosa quotidianità, dandosi al gioco d'azzardo e ai piaceri della carne. 
Un grande estimatore di questi luoghi fu certamente il celebre Casanova che nelle sue Memorie così si espresse:
"Tutto ivi spirava mollezza, infamia. Era il salotto adorno di agiati ed eleganti sofà, di specchi superbi, di lumiere di cristallo di monte, di candelabri di bronzo dorato, di un camino di candidassimo marmo, interiormente incrostato di quadrelli di porcellana della China, rappresentanti amorose coppie ignude nelle posizioni più atte a riscaldare la immaginazione. Dal salotto passavasi in una stanza il cui pavimento, la volta e le pareti erano per intero coperti di specchi disposti in maniera da moltiplicare tutti gli atteggiamenti delle persone, trovandosi in dette stanze un'alcova con due segreti sciolini, un de' quali metteva allo spogliatoio che preparato sembrava per la madre degli Amori, l'altro ad un bagno con vasca di marmo di Carrara...Servivasi finalmente la cena, che non mancava mai, per una finta finestra chiusa nella parete, donde colle vivande usciva un deschetto il quale perfettamente riempiendo il vano della finestra stessa, impediva a' padroni e a' servitori il vedersi."
In questi eleganti e lussuosi salottini il gioco divenne talmente scandaloso che cominciarono a sorgerne sempre di più: dopo quello di San Marco, ci furono i "casini" di San Moisè, San Luca, San Fantin, San Salvador e San Barnaba.
Nel 1638 il Consiglio dei Dieci della Repubblica - ormai rassegnati all'impossibilità di arginare una simile piaga - concessero al nobile Marco Dandolo il permesso ufficiale di aprire una pubblica casa da gioco, volgarmente chiamata Ridotto, perché qui la gente poteva infatti "ridursi" (ovvero, ritrovarsi) durante le feste ufficiali. E fu così che, specialmente durante il Carnevale, tornarono in voga tutti quei giochi proibiti, come la bassetta, il faraone, il biribisso e il panfil.

Tabellone figurato del gioco del biribisso, XVIII secolo

Sembra che la residenza di Marco Dandolo fosse enorme: si trovavano fino ad 80 tavoli da gioco, distribuiti in una decina di stanze, controllate dai barnabotti, ovvero quei nobili veneziani decaduti che svolgevano la funzione di veri e propri croupier. 

I barnabotti si vestivano da magistrati, indossando parrucca e toga

Nonostante i permessi ottenuti per il Ridotto e i fiumi di ducati che finivano nelle casse della Repubblica, una legge emanata il 27 agosto 1703 si espresse nei seguenti termini:
"... in questi recinti spalancandosi un ampio teatro al vizio con la detestabile mescolanza di patrizi e foresti, di graduati e plebei, di donne oneste e pubbliche meretrici, di carte, di armi, di giorno e di notte si confonde qualunque ordine ... con mal esempio alla gioventù e scandalo agli esteri".
Lo scandalo di simile pratiche divenne a tal punto insostenibile che il 27 novembre 1774 la Repubblica pose definitivamente la parola fine al Ridotto. Come è ovvio, questo non servì ad arginare il fenomeno, dal momento che alla fine della Serenissima se ne contavano ancora 106.



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