Marco e Mattio e l'antico corso del Piave


Circa un mese fa, durante una tediosa mattinata di quasi autunno, mi sono imbattuta in un libro piuttosto curioso; non ricordo il titolo esatto, ma si trattava di una raccolta di segreti e leggende su Venezia - ovvero la città in cui ho studiato per più di sei anni e di cui conosco nulla. Così, mentre sfogliavo qualche pagina, ecco che la mia attenzione viene catturata da un paragrafetto che così recitava (più o meno): 
"Mattio Lovat, l'uomo che si crocifisse da solo"
Inutile dirvi che il giorno dopo mi trovavo alla Toletta (storica libreria di Venezia) a comprare la biografia di questo individuo, scritta nientepopodimeno che da Sebastiano Vassalli (se vi interessa, il libro è questo).


Eppure, per quanto la lettura sia certamente emozionante, non sono qui a parlarvi di questo romanzo, bensì della minuta ed affascinante descrizione che Vassalli propone sul Piave all'interno dell'opera (e che essendo il Piave il nostro fiume un pò ci riguarda).

La storia dello scarpèr Mattio Lovat, nativo di Forno di Zoldo, copre un arco di tempo che va dalla seconda metà del 1700 agli inizi del 1800, quando l'uomo muore da disgraziato nell'isola di San Servolo, all'epoca sede - per chi non lo sapesse - di un manicomio. 

Ebbene, il nostro protagonista, prima di decidere di essere il Messia e di voler morire quindi in croce, era un normalissimo artigiano zoldano, che fabbricava e riparava dalmede. Per vari motivi, sui quali preferisco non dilungarmi, Mattio Lovat lascia il suo piccolo paese di montagna per raggiungere Venezia. Ma non la raggiunge a piedi, sul carretto, o a dorso d'asino. Bensì sceglie il mezzo di trasporto che all'epoca era più sicuro ed efficiente: la zattera.

Come racconta il Vassalli, il porto più vicino per chi abitava nei pressi di Forno di Zoldo era Codissago. Qui - ricordo che siamo all'incirca nell'aprile 1784 - c'era un grande movimento di gente che lavorava: oltre alle seghe ad acqua e agli altri rumori, si aggiungevano infatti gli urli e i richiami dei menadàs, cioè degli uomini che agganciavano i tronchi portati dalla corrente e li smistavano nei canali delle segherie. Questo era del resto il periodo dell'anno più favorevole al trasporto per zattera di ogni genere di merci: il Piave infatti, già rinvigorito dalle piogge primaverili, si caricava di un'acqua torbida, grigiastra, che era appunto l'acqua di neve. 
In quella stagione partivano dal Cadore due zattere al giorno: una alla mattina, che si fermava a caricare e scaricare in ogni porto del fiume, e che per arrivare in laguna impiegava anche una settimana; e una seconda, la cosiddetta "rapida", che portava i viaggiatori dalla montagna al mare in soli tre giorni. 


Zattieri del Piave. Famiglia longaronese (Fonte: Museo Etnografico degli Zattieri del Piave)
Ma come era organizzata questa zattera per passeggeri? Per essere precisi si dovrebbe infatti parlare di zattere o, come li definisce Vassalli, di "treni d'acqua" composti ciascuno da cinque vagoni - cinque zattere - tenuti insieme da artifici elastici di legno di nocciolo. La prima e l'ultima zattera, inoltre, erano riservate agli zattieri, e quindi al cosiddetto equipaggio, composto da otto uomini, vestiti di nero, col cappello nero a "bombetta", la camicia e le calze bianche e una fascia di lana rossa stretta intorno alla vita. Sulla seconda e sulla quarta zattera si caricavano le merci; mentre solo sulla terza, cioè la zattera centrale, salivano le persone. 


Ex voto Vigo di Cadore (Fonte: Zattieri bellunesi coraggiosi patrioti veneti)
Più difficile è ricostruire invece il percorso che questi passeggeri, diretti a Venezia, compivano: dopo la partenza dal porticciolo di Codissago, si arrivava al porto di Belluno e qui, nella città, si passava la notte. Il secondo giorno, da Belluno si raggiungeva il porto di Busche, dove il convoglio sostava all'incirca una mezz'ora per consentire il collegamento con la città di Feltre; poi Falzè di Piave e infine Ponte di Piave, dove si trascorreva la seconda notte. Il terzo giorno, per la felicità dei viaggiatori, si arrivava a Venezia, passando davanti a Murano e a San Michele, e sbarcando quindi alle Fondamente Nove. Successivamente, quando ormai era quasi buio, i passeggeri venivano fatti trasbordare su un barcone a remi che li portava direttamente in Campo dell'Abbazia. 

Queste sono le principali informazioni che sono riuscita ad estrapolare dal libro in questione.  Il Piave, che emerge da questa descrizione, non ha nulla a che vedere con quello che vediamo oggi o che - forse - resta oggi. Due secoli, del resto, possono incidere tantissimo sul territorio e sul paesaggio, sopratutto quando l'uomo interviene cercando di piegarlo alle proprie esigenze.

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A presto, amici

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